My time on Thames…

Esco dall’albergo e l’odore della città mi travolge. Sono passati due anni dalla mia stagione londinese, mi lascio trascinare dalle strade, mi impressiono nel ricordarne la mappa, gli scorci, mi sento sicura. Credo che una parte della mia anima sia rimasta aggrappata a qualche palo della tube e non mi abbia seguita sulla via del ritorno. I ricordi si sovrappongono e fondono. Sono stati due anni travolgenti questi. Penso a chi qui è stato con me e oggi non c’è. Penso a tutti quelli che ho conosciuto in questi due anni, a quello che abbiamo costruito, l’intensità. E mi sembra che, infondo, in quei giorni passati loro in qualche modo ci fossero. E’ strano. Come se tutti quelli che ho conosciuto lungo il mio cammino siano sempre vissuti in me, in potenza. Fa quasi paura, a pensarci.

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Lascia noi piangere un po’ più forte…

"Pudicizia" di Antonio Corradini

Quando sono triste scrivo. Che banalità. Banale anche dire che quando invece sono felice vado fuori, bevo e faccio battute tremende, ciniche. Ma il solo modo che conosco per estraniarmi dal dolore, per renderlo altro da me è provando a tirarlo fuori dandogli forma e sostanza con le parole.
Mi piace abbracciare le persone a cui tengo. Mi piace essere abbracciata. Non sopporto invece chi, deliberatamente, mi tocca, entra nel mio spazio individuale violandolo senza autorizzazione. Abbraccio in silenzio una amica, reduce dal dolore più straziante che si possa conoscere e il suo male entra in me, mi scorre dentro. Ne ho paura. In questa Pasqua di resurrezione non posso non pensare a che compensazione possa esistere davanti alla tragedia che l’ha colpita. Cha ha fatto lei, che ha fatto suo marito, che è successo? Perché soprattutto. Il suo volto che conosco da più di vent’anni non riesco a dimentarcarlo. Non posso distogliere la sguardo da quell’abisso. Non c’è nulla che possa consolare. Niente. Di fronte a quel grumo di disperazione tutto si ridimensiona. Non mi è cosa estranea. E’ qualcosa che ho vissuto, indirettamente. Esiste. Ma non ha senso. Perché?

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Bella, ciao.

Milano. Cioccolato al latte. La 55 il giovedì, presa al volo trascinandomi lungo via Padova-via Predabissi-piazza Durante, quando ancora i bus erano tondeggianti. I pentolini di ferro sul balcone d’estate. La tenda verde. Il bagnoschiuma al latte. Le malboro rosse. La borsa da lavoro a rombi. La michetta. I mondeghili. Meazza. Il comunismo. Sesto San Giovanni. Il dialetto. La Falck. L’Ercole Marelli. L’ingegner Fogagnolo. I fascisti. I partigiani. I manifesti elettorali, «Vedi? Quelli lì, rossi, sono i buoni, Quello scudo è cattivo», «Ma a me piace il sole!», «Quelli sono inutili». L’Inter. Il borotalco. Il burro anche nel sugo al pomodoro. Il sugo al pomodoro nel coccio. Le pennette lisce e scotte. Gli spaghetti scotti. Il risotto. La ciambella. Le mou. Le caramelle in generale. Il giornale radio di Radio 1. Canzo. Porlezza. Le mattine di giugno quando mi svegliavo nel divano letto e sentivo il profumo del caffelatte. Quella volta che mi sono rotta il braccio e mi portasti in taxi al San Raffaele. Quando mi chiamavi perchè avevi sognato di litigare con D’Alema. I pranzi di Natale. Il mio primo zaino (rosa, bianco e con le ranocchie verdi) in prima elementare. I miei volantini elettorali che mettevi nelle caselle. La cassoeula. Le nostre litigate. I tuoi tremendi ravioli. Corso Garibaldi. Le gite a Mortara e Sartirana per i Morti. Quei vestiti natalizi in lana di vetro che ci costringevi ad indossare, soprattutto quello blu a fiocchi bianchi. Mi gratto ancora se ci penso. Confidenze. I capelli a caschetto. «Sei tutta una Marchetti. Assomigli a mia sorella, quella morta». «Sei tremenda. Tutta una Prosperi». Tutte le volte che ti ho gelata con uno sguardo, una battuta, un rimbrotto. Tutte le volte che non mi hai abbracciata. Tutte le volte che non ci siamo cercate. Tutte le volte che non ti ho cercata. Tutte le volte che ho voluto che la mia vita non si incontrasse con la tua. Tutte le volte che ho pensato che fossi una grande, perché nessuno aveva la nonna che lavorava, fumava, usciva la sera e usava il computer. Tutte le volte che ho pensato che fossi semplicemente una terribile egoista e che non ti avrei mai perdonata. Tutte le volte che avrei avuto bisogno di averti. Quelle rare volte che l’ho fatto e hai provato a essere una nonna. Quella volta che volevo scappare di casa e mi venisti a prendere a casa di Marzia, una domenica mattina. La prima sera che mi ha portata a vedere Shakespeare. Venire da te dopo un esame d’estate e addormentarmi sul divano. Venire da te d’inverno e addormentarmi con i piedi sul calorifero. La gazzosa della Guizza sempre in frigo e il tramonto in via Maniago negli interminabili pomeriggi di primavera. Una nottata sveglia passata nel tuo letto leggendo The Dubliners alla luce fioca del vecchio lume. Ogni volta che ho incontrato il tuo sguardo e non mi sono riconosciuta, mai. Ma non basterebbe un libro, nonostante tutto. Anche se ti ho fatto un dispetto voluto persino con la mia tesi di laurea. E tu sai quanto io ci tenessi. Ventinove anni, nonna. Ci siamo mai amate? Non lo so. Non ci siamo mai tradite. Oggi inizia il primo giorno in cui so che davvero non ci sei più.

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Nel caso…

Vogliate conoscere e imparare qualcosa, fate un salto qui. Non ve ne pentirete

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In the Mou for love…

Mi manca Mourinho. Ci pensavo tornando a casa stasera, mentre risalivo Corso Buenos Aires. E’ una frase del cavolo, lo so. Un allenatore può mancarti durante una partita, al massimo fino alla fine della Domenica sportiva, ma non può mancarti nel tuo quotidiano, nei piccoli gesti, mentre pranzi in mensa o ascolti l’iPod.
Era come non aver paura di nulla, o averne meno. Come rialzare la testa, poter chiedere, affermare diritti, quasi pretendere. Incarnazione di desideri, sportivi e non (inizio a sudare). Era la nostra parte sbruffona, tremendamente bella, indicibilmente sexy, assolutamente affascinante.
Come alzarsi una mattina, guardarsi allo specchio e sentirsi temuti, invidiati, ambiti e con nuovi brividi sottopelle. Un velo che si squarcia anche sulle piccole ipocrisie.
Forse troppo? Sono convinta che i nerazzurri mi potranno capire. Non credo di essere stata la sola a piangere, mangiare biscotti portoghesi, bere tisane made in Lisboa e stordirmi di fado per toccare il fondo della sofferenza e poter poi iniziare a risalire.
Beh, a me Mou manca ancora. Il burro dei biscotti non ha placato il mio dolore. E farei carte false per rivederlo qui. Il mio sangue toscano mi ricorda dell’inarrivabile bontà della ribollita. Quindi non mi si parli del dubbio gusto delle minestre riscaldate.

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Prima dell’8 marzo…

La ragazza della metro - da Picasa

La metropolitana è un non luogo insopportabile. Dovunque uno si trovi. Certo, scendere dal vagone alla fermata di Bond Street è assai più cool rispetto a Sesto Marelli, ma tant’è, sempre di un angusto spazio sporco e rumoroso si tratta.
Solo in un momento della giornata mi pare sopportabile il tragitto nelle viscere di Milano a cui sono costretta: in quell’orario di nessuno che va dalle 19:45 alle 21, quando ormai le famiglie sono riunite, gli amici fanno l’ape e i solitari nomadi urbani, invece, si trovano sui sedili appiccicosi del treno. Mi innamoro soprattutto delle ragazze. Come l’ora, anche loro sono impossibili da incasellare. Potrebbero essere studentesse, professioniste o casalinghe. Hanno perso lo sguardo fiero e fiducioso che si intravede al mattino tra i postumi del sonno e il fard appena steso. Con il trucco, anche la giornata è scivolata via e trascinano le loro borse enormi, inseguendo qualche sogno in più tra le pagine di un giornale o di un romanzo con le pieghe agli angoli delle pagine. Le amo, una per una. Le stimo perché sono belle sotto quelle luci al neon che ne spoglia i tratti del viso. Mi immagino le loro vite, vorrei sapere chi le aspetta, cosa hanno vissuto, da dove arrivano e dove stiano andando. Le amo, infondo, perché ognuna di loro porta con sè anche una briciola di me, e, guardandole benevola, coccolo anche la me stessa che resta lì, sballottata tra Milano e le lamiere.

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Stelle e meteore nel cielo di Sanremo

Fiumi di parole...a caso

Ma la sera a casa di Luca scorrono fiumi di parole. Si incontrano persone inutili, qualche ragazza del sud, qualcun’altra anche brutta e certamente si beve gazzosa.
Se sarete fortunati potrete anche incontrare il vero amore, sempre ammesso che lui non vi congedi con un imperativo: “Non amarmi, rivoglio la mia vita”.
Vi è venuta voglia di cantare? Il ritornello era lì, acquattato da anni in un angolo del cervello ed è bastato un piccolo stimolo per risvegliarlo. Ci sono canzoni che sopravvivono alle stagioni, valicano il confine tra le generazioni e si trasformano in frasi fatte, tormentoni e patrimonio comune. Ma chi le ha cantate che fine ha fatto?

Mancano pochi giorni all’inizio dell’edizione numero 61 del Festival di Sanremo, la più grande fucina di talenti incompresi e successi dimenticati che la musica conosca. Nel 1983 Vasco Rossi con “Vita Spericolata” si classificò penultimo. La palma la vinse Tiziana Rivale con “Sarà quel che sarà”. Alzi la mano chi ricorda la prima. La alzi invece chi conosce la seconda. Lo stesso discorso vale per un imberbe Zucchero, ugualmente penultimo nel 1985 con “Donne”. A trionfare furono i Ricchi&Poveri con “Se m’innamoro”.
Negli anni è anche passata la voce che vincere, o avere successo, al Festival della Canzone Italiana portasse una certa sfortuna. Un discorso vale per buona parte dei cantanti che, dopo un bruciante successo sul palco dell’Ariston, sono scomparsi dalle scene.
Esempio per tutti i Jalisse, più noti per l’essere stati una meteora che per la carriera musicale. Qualcuno, dopo la vittoria del 1997 con “Fiumi di parole”, cercò anche di trasformarli in personaggi mediatici, speculando sulla loro relazione sentimentale. Stanno o non stanno insieme? Stavano insieme e il gioco durò poco, meno della loro ribalta.

Stesso discorso vale per i toscani Aleandro Baldi, Paolo Vallesi e Alessandro Canino. “Non amarmi, “Le persone inutili” e “Brutta” hanno spopolato alla radio a metà degli anni ’90.

Silvia Salemi

Poche le tracce che i tre hanno lasciato dopo la settimana in Riviera. Due belle ragazze, capelli corti e piglio rock, illuminarono con la propria voce le serate sanremesi del 1995 e del 1997. Lighea e Silvia Salemi sembravano destinate a competere con altre due primedonne uscite dall’Ariston: Irene Grandi e Giorgia. Si sono perse per strada, Lighea avrà probabilmente riavuto indietro la propria vita, come cantava a pieni polmoni, la Salemi avrà trascorso troppe sere “A casa di Luca”.

I giovani Gazzosa, clone nazionale del baby-gruppo americano Hanson, saranno cresciuti, i Ragazzi Italiani saranno diventati uomini e gli auguriamo di aver trovato il “Vero amore”.

Forse nemmeno il conduttore di questa edizione festivaliera, Gianni Morandi, si ricorda di Barbara Cola. Eppure con lei, voce potente e grande presenza scenica, conquistò un inaspettato secondo posto nel 1995 con la melodica “In amore”.

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La nipote di Mubarak

Dialogo al bar sotto casa.

Protagoniste: donna bionda orgogliosamente di solida tradizione borghese (BB) e mora tarchiata apparentemente arricchita (MA).

BB: Hai visto che casino in Egitto? Tutti in piazza contro Il loro presidente.

MA: Si, si! Tutta colpa del Tg3. Lo prenderanno col satellite. A furia di raccontare come lascia che gli trattino la nipote qui, si saranno incazzati.

BB: I magistr……(rumore di fondo)

Sullo sfondo, la vita continua a scorrere serena. Milano, Italia.

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Ruby, Silvio e il PotaPota…

“Ponte di Legno e anche Pontida, sciamo all’Aprica”. Ed ecco il ritornello delle “Gnare padane”, l’ultima presa per i fondelli del nostro Premier arriva dalle alleate. Su youtube gira il video delle donne della Lega, una risposta genuina ai festini esotici di Arcore, la rivendicazione in rima delle donne in camicia verde che militano, ballano sotto i gazebi e “non sui cubi” e che, a Cortina, preferiscono il mio amatissimo paese in Valcamonica.
Una reazione? Anche. E soprattutto un piccolo granello di sabbia – per quanto ironico-trash – nell’ingranaggio del consenso. Il secondo, se teniamo conto della raccolta di firme lanciata dalla consigliera di zona Pdl Sara Giudice che sta promuovendo una raccolta di firme per costringere l’igenista-tenutaria-d’agenda-consigliere regionale Nicole Minetti a dimettersi.
Io vi ho avvisati. Intanto torno a cantare il trascinante ritornello…POTA POTA!

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Rapsodia in rosa…

La direttrice del personale di San Pellegrino – Chiara Biscotti – lavora part-time e ha tre figli. Questa cosa non riesco a levarmela dalla testa da quando l’ho sentita. E’ stata lei a raccontarlo durante SorELLE d’Italia, il convegno organizzaro dallo storico femminile Elle per presentare il Libro Bianco sulle donne italiane, frutto di quasi un anno di indagine tra lettrici ed esperte. Si è parlato di diritti – che anche se acquisiti, sempre meglio ricordarseli, di questi tempi -, di lavoro, famiglia e del corpo di noi donne, giusto per essere sul pezzo. Esci sempre felice da questi incontri. Lo fai soprattutto se sul giornale hai letto che il Regno Unito sta approvando la legge sul congedo in caso di paternità anche per i padri. Pensi che le lotte non sono state vane, che noi donne potremo sempre più votarci ad essere qualsiasi cosa purché artefici del nostro destino. Poi torni a casa e leggi le intercettazioni. E tutto cambia.

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